3. Caratteri della sua pittura

A. BREVI CONSIDERAZIONI (AUTOGRAFE) DI ACHILLE CAPIZZANO SULLA SUA ISPIRAZIONE
     ARTISTICA     

Ricerca di una essenzialità della forma attraverso una limpida visione del vero con lo stesso procedimento caratteristico della gloriosa tradizione italiana specialmente rinascimentale.

Il ritorno attraverso i più moderni concreti risultati della pittura contemporanea (Picasso, Matisse, De Chirico) alle forme auliche disegnative della pittura romana e della vascolare greca.

La decorazione concepita come esteso racconto ben differenziata dal quadro inteso come espressione lirica semplice istantanea.

La ricerca di rinnalzare l’uso di una simbologia elementare atta ad essere chiaramente intesa dal popolo a facilitare la lettura della composizione a carattere politico e memorativo.



B. VALUTAZIONE ARTISTICA DI ACHILLE CAPIZZANO DA PARTE DELL’ARCH. LUIGI MORETTI
    (vedi foto)


E’ difficile richiamare pacatamente l’esperienza pittorica e le opere di Achille Capizzano, per delineare ora, in una prospettiva più estesa del tempo, una revisione critica ed un inquadramento in quel particolare periodo della pittura italiana corso nel secondo quarto di questo secolo, tanto la figura fisica di lui mi balza avanti nel ricordo, viva in maniera incredibile, e mi assorbe, nella commozione, ogni altra attenzione di pensiero.

Sono ancora qui presenti i suoi occhi acuti e mobilissimi, il suo gestire rapido e in certi momenti di improvvisa dignità, l’espressione del suo volto con il segno palese di una bontà che sembrava nascergli da un distacco sereno dalle cose e dalla loro conseguente umana comprensione.

Ebbi la fortuna di averlo vicino per anni in quello studio,volante sui tetti dell’antica Via Panisperna, dove convenivano tanti altri vividi ingegni, da Gentilini a Mafai a Tamburi, ed ho di lui incisa la tessitura del suo limpido carattere, la sua perenne malinconica letizia, la sua estrema sensibilità e recettività verso il mondo delle forme, la intelligenza che aveva e di cui era cosciente e la sua pari modestia, frutto di quel rispetto antico e nobile per gli altri, proprio della migliore gente del Sud.

Nei molti anni che ebbi con lui nel mio studio, seppe farlo innamorare di certe particolari visioni prospettiche del Rinascimento, conquiste cruciali di un tipo affascinante di spazio pittorico: le tavolette di architettura del Museo di Perugia, le piazze adamantine attribuite a Francesco di Giorgio, le architetture di fondo del Mantegna.

La sua acuta sensibilità recepì la magia di quegli spazi astratti e il lucore ultraterreno che vi prendevano le forme e li riversò in molte tempere di architettura e non, che rimangono tra le più interessanti, specie le monocrome, e meno conosciute delle sue esperienze.

Fu per lui questo anche un momento di passaggio sollecitante a quella più ampia recezione delle grandi trame spaziali pittoriche del primo Rinascimento e di Piero della Francesca in particolare, che una corrente della pittura romana di quel tempo, da Cagli a Cavalli, aveva ritrovate e poste su gli altari.

Ma la sua inquieta sensibilità e recettività lo portarono anche subito verso quell’altro spazio pittorico dell’altra corrente della pittura romana, quella che con Scipione e Mafai venne poi indicata per antonomasia come la “Scuola Romana” e se non abbandonò, come mai abbandonò, le volumetrie di Piera della Francesca, riuscì a non unificarle oltre la loro sia pur splendida misura.

Da questa ulteriore esperienza la sua attenzione si acuì sull’intera rosa dei mondi validi della pittura italiana di quegli anni – dal quel cubismo passato per il futurismo di Carrà, Soffici, Funi e di Sironi, con la sua componente dell’espressionismo tedesco, a quel singolare riflesso di Piero della Francesca nelle gessose, splendide stereometrie di Casorati -e di quella pittura francese che da Cezanne, Lègere e Braque e a Picasso lo portò attraverso un risalente processo di un’intima susseguenza logica, alla radicale comprensione della grande pittura romana anticadelle stesure musive di Ravenna.

Conscio della sua naturale struttura, e con essa dei suoi pur eccellenti limiti, egli arrivò così a puntualizzare, verso il 1935-40, un suo mondo figurativo pittorico vivacissimo di meridionale colore e fermissimo di disegno; mondo svuotato di ricerche spaziali volumetriche, ma densissimo di una tessitura espressamente bidimensionale, musicalmente leggibile nell’interdipendenza tra tono e limiti di tono, cioè disegno.

Sono di quel periodo le sue opere più valide: tra le pitture quel bellissimo “ritratto della moglie”, la serie incantevole, smagliante dei monotipi su vetro, e tra le grandi composizioni quella, ora abrasa, sulla grande parete di ingresso della Casa delle Armi al Foro Italico e, al culmine della sua forza espressiva il bellissimo cartone per il grande mosaico al Palazzo dei Congressi dell’Esposizione Universale di Roma; cartone che vinse il concorso nazionale e, per il cadere della Guerra, non fu mai eseguito.

Questo cartone segna la ascissa massima della sua maturità; stesure grafiche monumentali di colore contrappuntati, innestati l’uno con l’altro nel giuoco variabilissimo dei cartoni e delle misure metriche.

Quello che sarebbe stato questo suo mosaico eseguito lo rileva con decisa veemenza la serie dei suoi mosaici in bianco e nero al Foro Italico: mosaici nei quali l’alternarsi della trama dei segni, ora castigati e ora abbandonati, ora densi e ora dispersi, delle limitazioni bicrome, regge, direi ancora meglio, di quella dei vicini mosaici, pure eccellenti di Severini.

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Vale qui ricordare tra queste punte fondamentali della sua attività le opere variatissime per tecnica e per tessitura pittoriche che la sua, pur breve, attività gli consentì; quali a esempio i mosaici con fondi splendenti e di un decorativismo elegantissimo, in certi aspetti sino a risentire certi rari imperituri sapori della “art noveau”, fatti all’Hotel Hassler, all’Hotel Mediterraneo e al Cinema Rivoli in Roma.

Ma di un’opera particolarmente è ancora da far memoria: la grande composizione mitologica incisa a puri contorni sullo stucco di una parete della Casa della Gioventù in Trastevere, dove la sinuosità delle linee è diventata puro giuoco musicale, non certamente immemore dei disegno mitologici picassiani.

Della sua attività come insegnante alla Accademia di Belle Art non ho notizie precise: le voci che mi giunsero furono di maestro amato e vivacissimo.

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Le sue opere sono così ora rinvenute davanti a noi nella memoria e nei documenti rimasti. Tuttavia devo ancora ripetere che la sua figura e il suo carattere mi sopravvengono avanti ogni altra cosa.

In questo mondo di ora, al moltiplicarsi degli uomini, delle loro infinite attività, delle miriadi delle loro diverse espressioni e visioni che ci vengono continuamente proposte e subito abrase, in un perpetuo alternarsi affannoso e senza senso, si incomincia a sentire stranamente ma spiegabilmente che la struttura di un uomo di per sé ci interessa, ci sopravanza, vorrei dire di più, comunque non meno, delle sue opere.

Per me Achille Capizzano rimane vivissimo nella sua umanità distaccata e appassionata nello stesso punto: un tipo di umanità che sembra abbia rappresentato e precorso uno dei pochi modi esemplari di trascorrere la vita nell’intricato oggi.

Roma 5 Settembre 1966



C. VALUTAZIONE ARTISTICA DI ACHILLE CAPIZZANO DA PARTE DEL PROF. TONINO SICOLI

“UN ARTISTA TRASVERSALE”

Quando Achille Capizzano lascia la Calabria e si trasferisce a Roma (1923) per intraprendere gli studi artistici, si è da poco aperto quel terzo decennio del Novecento caratterizzato da un generale “ritorno all’ordine”.

Si è “regolarizzata” la vita politica con la fondazione del Partito Nazionale Fascista, si va “normalizzando” anche la produttività artistica, sempre più lontana dalle stravaganze delle avanguardie del primo e del secondo decennio.

Dopo la fioritura del cubismo, del futurismo e della metafisica si va facendo strada una stagione di riflusso che ripropone la centralità della tradizione e della storia, del classico e della realtà figurativa, del racconto e della celebrazione aulica.

Sono anche gli anni in cui si intraprende la costruzione della città fascista, espressione dell’architettura razionalistica e della nuova organizzazione ideologica del territorio.

La formazione del giovane Capizzano avviene, dunque, in un clima di fibrillazione culturale dentro il quale si fanno avanti istanze spesso contraddittorie, che spingono da un lato verso la creazione di uno stile fascista, magniloquente e statalista, dall’altro verso un’arte popolare e privata.

E la sua pittura, in verità, oscillerà sempre tra questi due poli ovvero tra l’intervento pubblico e l’esercizio intimistico, fra l’ornamento monumentale e il piccolo formato, fra l’illustrazione dei grandi temi storico-mitologici e il vissuto personale, fra il progetto architettonico e l’appunto disegnato.

Architettura e disegno sono i due grandi riferimenti di Capizzano, gli aspetti complementari della stessa attitudine creativa, due facce della stessa medaglia.

La vocazione al disegno è abbondantemente coltivata fin dai tempi dell’Istituto e dell’Accademia delle Belle Arti, dove-va ricordato-avveniva la formazione sia di pittori che di scultori, ma anche di architetti. Certo l’incontro con un abile cultore del bianco e nero come Paolo Paschetto, suo maestro di Ornato, e con Ferruccio Ferrazzi, suo insegnante di Pittura Murale, gli vale più di ogni altra esperienza. Con loro impara a concepire il disegno come supporto dell’architettura, facendo dell’immagine bidimensionale una sorta di preparazione o di complemento dell’opera architettonica.

Sono questi gli anni in cui sente forte l’influsso della pittura preraffaelita di fine Ottocento che gli ispira un elegante disegno di derivazione classica. Il segno sinuoso, la sensualità delle forme trovano punti di incontro anche con il gusto Liberty, che propugna un’arte applicata alle strutture ed agli oggetti di uso quotidiano.

Infatti sulla fine degli anni Venti, figure variamente atteggiate in pose aggraziate sono inglobate nelle architetture degli interni, collocate come ornamenti per stanze in delicati fregi, che scorrono sulle pareti in modo estetizzante ed idealizzante.

Il sodalizio poi, a partire dal 1930, con l’architetto Luigi Moretti, autore di molti progetti della “nuova” Roma, induce Capizzano ad occuparsi professionalmente di architettura in qualità di accurato disegnatore. L’incontro con questa arte non produce solo le tempere dei progetti, esatte e metafisiche, ma influenza tutta la sua pittura che corteggia costantemente i grandi spazi, l’impianto monumentale, le prospettive allungate.

Sembra quasi che la città fascista sia più immaginaria che reale. La fisicità distante e distaccata, l’aspetto estraniato, le architetture scenografiche rendono gli ambienti estremamente irreali, anche quando dal progetto passano all’esistenza di fatto.

Il protagonista di queste visioni è più che altro lo spazio vuoto, l’uomo è evocato in absentia; le grandi piazze, pronte ad accogliere le grandi adunate di massa, sono prive di umanità. C’è infatti una sessa luce metafisica ed una stessa aura assente nei disegni di Capizzano per i progetti di Moretti e nei paesaggi con templi nitidi e figure enigmatiche eseguiti sulla fine degli anni Trenta.

Se da poco si è conclusa l’esperienza metafisica di De Chirico e Carrà, non si sono ancora mitigatele influenze post impressionismo d Matisse e del cubismo di Picasso. Mentre a Roma, in questo periodo, si trovano ad operare artisti di varia provenienza culturale, poi nemmeno tanto separati dalle barriere ideologiche, se è vero che sotto lo stesso ombrello protettivo del fascismo convivono i futuristi di Marinetti e i passisti di Sarfatti e del Novecento.

Capizzano guarda con curiosità ai movimenti delle avanguardie storiche ma non si lascia travolgere dalle mode culturali. La vicinanza ideale sembra invece a stabilirsi con gli artisti di Valori Plastici e con il loro attaccamento alla solida tradizione rinascimentale di una pittura dall’impianto volumetrico.

“La tradizione dell’arte italiana-scrive Capizzano-così vasta che tutti vi possono trovare un riferimento senza idolatrie; le quali hanno condotto, in tempi non troppo lontani, a risultati aridi e mancanti di possibilità di sviluppo o, per essere più precisi, del tutto professorali, senza vitalità cioè per l’arte che vive nei secoli”.

Infatti la sua interpretazione della via celebrativa dell’arte è intrisa di contaminazioni, che da un lato recuperano la tradizione classicista dall’altro si concedono alle suggestioni della modernità.

Capizzano riesce in una certa misura a trovare punti contatto tra la pittura vascolare greca eil primitivismo del Picasso post-cubista, ovvero di quello più” mediterraneo” incline all’arcaismo di una figurazione solida e dai forti accenti plastici. I mosaici del Foro Italico presentano questo uso “liberato” dallo spazio anti prospettico e bio dimensionale. Sono costruiti in modo tale che i vari “pezzi” di ogni riquadro interagiscano tra di loro stabilendo intrecci strutturali sapientemente dosati, che al di là delle forme geometrizzanti restituiscono una figurazione ben calibrata.

Le silhouette nere su fondo bianco con il disegno pure in bianco (o viceversa: le silhouette bianche su fondo nero con disegno nero) delineano i termini di una pittura eroica, severa e solenne, didascalica e monumentale.

Capizzano non aderisce mai ufficialmente alla poetica del Novecento, che, a dire il vero, quando entra nella scena artistica volge già al declino; dimostra tuttavia di farsene di fatto sostenitore, quale interprete più che altro di quella “pittura fascista “il cui stile è individuato da Sironi come “antico e ad un tempo novissimo”.

Idealmente l’artista rendese, troppo giovane per far parte del gruppo della prima ora, trova nel novecentismo una sintesi della sua concezione dell’arte.

Si avvertono nelle sue opere al Foro Italico realizzate tra il il 1933 e il 1943 la stessa intenzione scenografica e la regia figurativa possentemente esibita da Carrà, Funi, Sironi e Cagli nella Triennale di Milano del 1933.Intanto,si va facendo strada un’apertura verso soluzioni più pittoriche e meno disegnate; la sintesi formalee l’assolutezzacromatica del bianconero si evolve agli inizi degli anni Quaranta, in una pittura di concertazione più ampia, più analitica, che evoca i toni e le TMOSFERE DELLA PITTURA DI Giotto e di Piero della Francesca, nei colori terrosi e caldi, ma anche nella composizione ad episodi articolati, dove tutto accade simultaneamente.

Nel grande bozzetto per il mosaico dell’Impero pensato per il Palazzo dei Congressi all’Esposizione Universale del 1942, Capizzano si avvicina alla pittura di Achille Funi e di Alfredo Basadella, con i quali avrebbe dovuto dividere l’onore delle grandi decorazioni parietali del palazzo. Forse è proprio in questa opera che si coglie meglio che altrove il carattere corale di un tipi di pittura, che incarna sempre più l’idea fascista di un’arte sociale. Più che nel Palazzo della Triennale di Milano dove ancora si colgono differenziazioni e slanci soggettivi, sembra attuarsi nell’E42 in generale e nel Palazzo dei Congressi in particolare, una sorta di opera collettiva, dove ogni singolo intervento si invera nel contesto.

Capizzano partecipa a questa grande impresa unitaria con l’apporto di stilemi pittorici che ricordano la pittura pompeiana e l’arte compendiaria paleocristiana.

Il tentativo di individuare, uno stile comunque capace di restituire l’arte alla maestosità dei grandi cicli pittorici del passato, con un’attenzione ai termini allegorici, storici e religiosi, porta questi artisti “allineati” a concepire una tipologia a schema multiplo e a comparti, con le terre come colori unificanti.

Sono cercate affinità elettive con gli affreschi e i mosaici delle epoche insigni, ci si cimenta con gli argomenti epici e le celebrazioni storiche.

Tuttavia l’adesione ad un modello unitario non impedisce a Capizzano di trovare soluzioni compositive e narrative che ricordino le varie scene in un continuun cromatico arioso e solare.

Né innovazioni formali, dunque, ne esibizioni prorompenti della personalità; ci troviamo di fronte ad una accettata collettivizzazione della pratica artistica, che, ciò premesso, risulta assai coerente con quanto professato, salvo a scoprire, a conti fatti, che è tutta la produzione dei Novecentisti ad essere in qualche modo omologata.

L’illusione di un’arte contemporaneamente grandiose e grande, che identificasse gli ideali del regime, ma anche quelli inerenti a se stessa, legati al rinnovamento dei codi espressivi, si infrange contro una realtà di fatto incline alla retorica e all’apparenza, Alle strumentalizzazioni politiche dei grands commis intellettuali del regime, come Oppo e Sarfatti.,si contrappone la ingenua adesione ad una improbabile arte fascista di personaggi come Capizzano, che, in linea con i novecentisti, dimostra di preferire più un’arte nazionale che “di Stato”.

Pur vivendo appieno il clima politico e di amicizie del Ventennio e collaborando con aristocratici architetti del regime

Me come Luigi Moretti e Adalberto Libera, Achille Capizzano, rimane in fondo un uomo semplice ed un artista che vuol parsi capire dalla gente: Adotta così come lui stesso appunta, “una simbologia elementare atta ad essere chiaramente intesa dal popolo a facilitare la lettura delle composizioni a caratteri politico e memorativo”.

Nell’Impero cita l’iconografia della pittura antica, traducendola in immagini immediate, dai modi popolari. Mentre il racconto assume i toni della quotidianità, con scene di gusto pastorale e d’intento divulgativo.

La spontaneità e gli slanci soggettivi, tuttavia, non competono, per Capizzano, all’arte pubblica.Il decoratore murale è altra cosa dal pittore dei quadri: Ed è in questi ultimi che l’artista rendese, libero da preoccupazioni didascaliche e propagandistiche, si lascia andare alle emozioni, esplora le sensazioni nascoste, assume il tono confidenziale.

Anche il formato delle opere è ben distante dal titanismo dei mosaici. Diminuendo le dimensioni dello spazio pittorico è come se si discendesse in una dimensione riposta, intima e spirituale.

“La decorazione concepita come esteso racconto-scrive nei suoi appunti Capizzano- è cosa ben differenziata dal quadro inteso come espressione lirica, semplice, istantanea”.

Anche i modi della pittura si fanno veloci e si rivolgono alla sfera privata. Le suggestioni sono tratte dalla vita quotidiana, dall’ambiente circostante, dalla memoria personale. Le immagini accennano alle sensazioni, rivelano un modo di essere e di pensare:

I nudi, le vedute cittadine, le nature morte, il paesaggio,i soggetti religiosi, i ritratti della moglie e dei figli si aggiungono ai temi simbolici, mitologici e storici.

La figurazione ripercorre le tappe salienti dell’arte fra la fine dell’Ottocento e per tutta la prima metà del nostro secolo. Dalla pittura densa dei Nabis, un po' ingenua e formalmente semplificata (Donna in sottoveste, La recita),a quella fervida di pennellate e di colori alla Matisse (Orfeo, L’amore nei secoli,Scena mitologica),dalle visioni metafisiche delle nature morte di Carrà (Natura morta con conchiglia e ocarina)a quella dei paesaggi di DeChirico (senza titolo 1938), dall’immediatezza gestuale e monocromatica di DePisis (i monotipi) al visionarismo espressionistico della Scuola Romana/Casa di Nerone, Il Palatino, Piazza del Popolo).

Quella che apparentemente potrebbe sembrare una produzione artistica di risulta dalle correnti e filoni stilistici di varia identità, è in realtà il rilevatore di un clima di contaminazioni culturali estremamente ricco e problematico. In fondo, i confini fra i vari movimenti e le varie correnti non sono in realtà così netti come vengono indicati nei manuali di storia. A maggior ragione per chi opera con discrezione e riservatezza, spesso lontano dal clamore dei riflettori di una cronaca avida di primedonne, la pratica dell’arte assume contorno più sfumati e si identifica più come una testimonianza di vita che con l’assunzione di stilemi predeterminati dalla fede estetica abbracciata.

Ne deriva per Capizzano una pittura composta ricca di apporti iconografici e stilistici, che testimoniano la sua piena adesione allo “spirito dei tempi”, ovvero a quelle temperie culturale, che fra slanci e contraddizioni, caratterizza l’arte della prima metà del secolo.

L’esercizio della pittura si configura come una sorta di esperienza complessa, nella quale differenti spinte creative si pongono in equilibrio dinamico; la conoscenza delle varie correnti poetiche, la sensibilità per il fare, la passione per il dipingere consentono a questo artista do valutare i fenomeni artistici con grande serenità.

La suo onestà intellettuale, di chi non conosce furbizie o scorciatoie, gli fa filtrare i contributi culturali provenienti da varie parti, con sincerità di intenti, assumendo solo ciò che gli pare utile alla sua “missione” di artista. Capizzano è un’artista trasversale alle grandi correnti, non obbligato né alle ideologie artistiche né dalle logiche di mercato ad uno stile predefinito.

E’ un candido citazionista che avverte la crisi del moderno quando essa non si è ancora del tutto compiuta. In un’epoca fatta di movimenti, che pretendono di porsi totalitaristicamente come gli unici interpreti degli sviluppi dell’arte, egli più modestamente si guarda, incuriosito e smarrito, per cercare di raccapezzarsi.

Nella Roma degli anni Quaranta compiono esperienze simili alle sue Fausto Pirandello, Montanarini, Guzzi, Tamburi, Scialoja Guttuso, nonché Angelo Savelli(calabrese come lui) e Giuseppe Capogrossi ancora pre-astratti, che pongono le basi della ripresa degli anni Cinquanta e seguenti.

Il carattere mite e riservato di Capizzano e la sua prematura morte a soli quarantaquattro anni non gli annì non gli hanno consentito una sua collocazione nel panorama successivo alla caduta di Mussolini.

Per di più, una critica ideologicizzata e monodiretta ha costretto l’artista del Foro Italico a quella dannatio memoriae, che ha posto in oblio tanti artisti ed intellettuali, che a vario titolo sono stati compromesso con la dittatura fascista.

Solo da una quindicina d’anni a questa parte, l’arte italiana degli anni Venti e Trenta è oggetto di studi sistematici, che intendono analizzare la complessità dei fenomeni culturali, con la conseguente rivalutazione dell’opera di coloro, che hanno legato il proprio nome agli avvenimenti del periodo.

Una rilettura dell’opera di Capizzano, fatta con gli occhi sgombri da pregiudizi, può far scoprire non solo un artista di un certo interesse, ma contribuire alla ricostruzione del contesto in cui ha operato, gettando nuova luce su una delle pagine ancora piene di zone d’ombra della nostra storia recente.